Sue Kennington, Clearing, installation view, Curva Pura, photo Giorgio Benni, courtesy Curva Pura

Disvelamento oscuro: l’ombra del colore nell’opera di Sue Kennington

Curva Pura ha aperto la nuova stagione espositiva presentando Clearing, mostra personale dell’artista inglese Sue Kennington, a cura di Davide Silvioli.

MATTEO DI CINTIO

Ho fantasticato molto sul titolo della mostra pittorica di Sue Kennington prima di accedervi presso lo spazio accogliente ed energico della galleria Curva pura (in allestimento dal 5 ottobre al 6 novembre); il termine inglese Clearing risuonava in me, in maniera superficiale e ingenua, come una chiara (appunto!) programmatica d’intenti, l’esplicita dichiarazione di una volontà tecnico-pittorica volta alla chiarificazione, alla lucentezza, all’impiego vivido e saturo del colore, all’atto di rimozione del superfluo.
Osservando l’opera, e confrontandomi con la stessa artista in un dialogo vertiginoso costellato di esperienze di vita, impressioni, digressioni tecniche e rimandi letterario-filosofici, non potevo che “far decantare” la parola Clearing per complessivizzarne il significato, per bordare gli aspetti aporetici insiti nel suo rimando semantico. Se, infatti, di un processo di disvelamento si tratta, se l’act of clearing mosso dall’artista s’indirizza verso una chiarificazione di ciò che è essenziale nel lavorio pittorico, tale processo non può che farsi spazio nei meandri dell’oscurità, in ciò che è adombrato, eclissato, avulso dalla luce. Avanzare nell’atto della pittura è, per la Kennington, come passeggiare in un bosco al calar del sole; non a caso è proprio lei a dirmi che molte delle opere esposte all’interno della mostra sono nate a seguito di lunghe passeggiate serali nei boschi del senese, territorio che ha accolto l’artista già da diverso tempo.
La serie dei piccoli quadri su tavole di legno sembra “fotografare” istanti di una natura che è compartecipe della costruzione di una visionarietà pittorica astratta, ma non per questo aderente ad una attenta percezione della realtà. Anzi: nell’opera si aggruma un reale più autentico della realtà, che coincide con la fissità cheta ma penetrante di un pathos notturno, di un’ombra che incessantemente accompagna, sottolinea, e rimarca (come in un atto di chiarificazione appunto) la materialità del gesto pittorico. Lo si contempla perfettamente nell’opera Fiammable System, dove il movimento veloce e incondizionato dell’atto artistico sembra evocare sì delle forme floreali, ma imbevute di un’inversione chiaroscurale tensiva e inquieta. Il trittico dei dipinti intitolati Gamma, realizzati con colori a tempera su fogli di carta, ci suggerisce invece come il processo di disvelamento oscurale sia un vettore che va dal modello al caso; l’artista, infatti, mi confida che la sua ricerca pittorica trova il proprio inizio nella sistematizzazione di uno spettro di pigmenti. Dalla matrice ordinata dello spettro cromatico si passa inevitabilmente alla contingenza dell’evento, perché, per la Kennington, non c’è realizzazione artistica se non nella caduta del colore dal pennello al supporto, atto che esplicita la sua forza nella pulsione a ripetersi, sempre diverso, sempre necessario. Ragione e pulsione, come sottolinea il curatore Davide Silvioli, si aggrovigliano nell’atto artistico, permettendo al fruitore di cogliere l’oscura consistenza delle cose. Ciò che insiste nell’ombra, l’ombrato, il notturno, mi permette, forse di osare un collegamento letterario ardito.
In un famoso saggio intitolato In’ei raisan (Elogio all’ombra) Jin’ichirō Tanizaki osserva che nel mondo della tradizione orientale la bellezza può crearsi solo nell’apparizione di ombre nei luoghi più disparati. La bellezza, scrive il romanziere giapponese, «non [è] nella cosa in sé, ma nei chiaroscuri, e nei disegni delle ombre che si creano per le sfumature tra un oggetto e l’altro. Così come una gemma fosforescente irradia luminosità quando è collocata al buio, ma perde il suo fascino quando è esposta alla luce del giorno, così la bellezza si perde senza gli effetti d’ombra». E una bellezza che si avviluppa nelle pieghe dell’ombra è evidente nell’opera Night Flight, dove il gesto pittorico convulso sedimenta un movimento che ha la tensione di una trascendenza, sia esso il richiamo di un volo o la visione di una croce. La trascendenza diviene per l’artista londinese l’abbandono ad un atto pittorico che chiarifica di per sé anche nell’ombra, che non ha bisogno di alcun direzionamento, alcuna condizione prestabilita, alcun armamento del senso. «Bisogna avere solo fede – mi confessa commossa Sue Kennington – nel colore che cade». Per usare le parole di Claudio Parmiggiani, forse «una fede in niente ma totale».

Sue Kennington: un amplesso veloce e di dubbia certezza

by Maria Vittoria Pinotti * 3 novembre

Non esiste opera poetica, per quanto raffinata e complessa possa essere, capace di reggere il confronto con la pittura non figurativa. Poiché quest’ultima, racchiude in sé tutto il significato, sì da imporlo ancor prima che venga cercato il soggetto che non possiede affatto.
Proprio in questa mentita adesione al motivo, che risiede nella capacità di astrarre la realtà, diventano protagoniste un insieme di interrogazioni sul colore, la forma, la spontaneità del gesto e la vivezza del timbro. In sintonia con questo pensiero si colloca la mostra di Sue Kennington (Londra, 1955), intitolata Clearing, a cura di Davide Silvioli e in programmazione presso lo spazio Curva Pura di Roma fino al 6 novembre 2023. Pertanto, non v’è alcun dubbio che attorno al logismo sopra accennato ruoti la ricerca dell’artista, sempre pregna di dubbi, sì da vagare in uno stato di limpida e necessaria consapevole incertezza, di cui tuttavia ella non risulta preoccupata ma anzi, di contro, vividamente rafforzata. Cosicché la pittura che ne discende si presenta come una vitale azione basata sul metter su colori, dispiegati come trucioli dai morbidi spigoli che rendono una particolare sensazione visiva, restituendo equilibrati rapporti scaturiti dall’istinto oltre che da veloci impulsi.
Da tale condizione d’indeterminatezza, che è da intendere non come uno stato d’insicurezza, bensì come una fase indispensabile e propedeutica alla riuscita dell’opera e stimolo alla sua ricerca, l’artista è forte di un’evidenza: non potrebbe mai dipingere con la certezza di avere tutto chiaro in testa, sapendo già in anticipo cosa scaturirà dal lavoro finito. Da tali premesse la mostra Clearing genera un percorso espositivo dal ritmo alacre, che si inceppa alla prepotenza delle forme coloristiche, lasciando che le opere si svelino di per sé come degli istintivi credi in punta di colore e pennello. Infatti, l’artista elucida nebulose tonalità che si sciolgono e consolidano alternativamente, riuscendo abilmente a fissare sia l’istante immeditatamente anteriore alla dissoluzione totale sia quello appena posteriore alla creazione.
In tale rapsodica analisi, Kennington è complice sottaciuta del suo perenne stato d’indagine, giacché sotto la viva foresta di tinte che caratterizzano le opere in mostra, in verità palpita un’intensa attività di studio, volta al riuscito campionamento di una moltitudine di colori. Questo importa per notare come a vantaggio dell’artista sia fondamentale descrivere il mondo attraverso i propri occhi di sperimentatrice coloristica, per cui non osserva mai il creato in modo neutro e distanziato, bensì lo studia tanto da poterne esprimere l’energia dell’improvvisazione, e al contempo, farne volare la pesantezza e soppesare le gravità tonali. Così anche il suo amato studio nella campagna toscana è filtrato da fulgori naturali, diventando il luogo d’eccellenza in cui ogni colore si trova in una cattedrale che protegge e rigenera.
Secondo tale ottica interpretativa, la sua pittura deve essere commentata in termini di luce, sicché si rivela audacemente delicata e raffinata, capace com’è di tradurre l’armonia del canone matematico del prisma dei colori ordinari presenti nel creato. Eppure, l’artista si distacca consapevolmente da questo obbiettivo, poiché intuisce di non voler rendere tali sfumature volontariamente somiglianti a quelle che si trovano in natura, realizzando, di contro, sconosciuti e suggestivi aliti di vita in cui il tono è in grado di trasmettere subitanee vibrazioni. Ebbene tutte le opere esposte si pongono come dei finestroni zenitali che aprono una proiezione verso una mutevole geografia di balenii: un’apertura su una foresta reale, ma allo stesso tempo immaginaria, per cui il fine è sempre una ferma e accertata relazione tra forma, colore e risonanza. E sebbene il suo atteggiamento sia come quello di uno scienziato che intende illustrare verità già svelate, Kennington si comporta in maniera imprevedibile. Così il solo riguardo che conosce contro gli eccessi della ripetizione e del rigido controllo sulla tela è soltanto l’improvvisazione, affidandosi all’estro di tonalità che crede di non conoscere. Tale scelta racchiude un’azione di vitale importanza, poiché non si postula forzate scelte di natura estetica, agendo, invece, solo laddove la spinta della mano scivola impulsivamente verso inverosimili colorazioni e forme, motivo per cui quanto realizza è sempre difficile da recitare e ripetere.
Siffatta spontaneità permette all’artista di comportarsi come se dovesse eseguire una scrittura grafica con i colori della primavera e dell’autunno, in cui ogni azione pittorica è cautamente regolata da un battito di palpebra, che se assente potrebbe gettare tutti gli equilibri dell’opera in un caos disarmante. Tuttavia, chiunque di noi è libero di leggere in ciò che è esposto una moltitudine di cose brulicanti sia sopra che sotto le superfici, lasciando spazio ad avvertire il tremito taglio della pennellata come un momento di gloriosa liberazione, che disinnesca un atto in cui i colori tanto amati vengono inceneriti e poi dispersi sulle superfici pittoriche. Perciò, tra le opere in rassegna, le gouache su tavola sono quelle di maggiore interesse e rarità, convinti come serve essere, che l’atto del dipingere è successivo a quello del pensare e dell’osservare, momenti questi ultimi che donano un delineato senso alle morbide forme che si acquietano in un carattere morfogenetico.
Perciò l’artista è vigorosamente attratta sia dalla luminosità, intesa come un ampio diorama ambientale, sia dall’oscurità, di cui risente il richiamo in tutte le implicite aspettative nel sortilegio e grazia che possono donare i toni in questi frangenti temporali. Non dovremmo quindi stupirci che si trovi in mostra, a tal proposito, una tela inaspettatamente e sgargiatamene gialla, frutto di una ricerca notturna nel cui moto le pennellate larghe, suadentemente sfilacciate, accelerano vertiginosamente l’equilibrio. Eppure, anche in questo caso tutto rientra nei ranghi, sempre grazie alla capacità indomita di Kennington di essere mite e dubbiosa nella gestione delle dinamiche coloristiche. E in tale purificato gusto verso lo sfrangersi dei tratti come falci si avverano chimerici echi tra forma e sostanza, evitando così la trappola del motivo e dello stilema fisso. Tutto ciò, da ultimo, accade per tradurre in realtà il valore dell’istinto creativo, quale conoscenza di una forma associata di uno e più colori, un fantasioso divenire, in altri termini, per cui il chiarore e soprattutto l’oscurità stagna, sembrano mirabilmente mutare in intervalli scenici, che producono veloci amplessi pittorici di dubbia certezza.

UN MITE SCARMIGLIARE. A TU PER TU CON SUE KENNINGTON

di Laura Catini

LC. Nel riflesso della natura, la timidezza della forma, si dissolve in una compenetrazione che fa tendere il figurativo nella chiarezza lenticolare di un colorismo astratto. Tuttavia, la tua ricerca sgorga da una precedente astrazione, quasi geometrica, in cui confini e colori hanno una delineata ritmicità nella composizione. Appare un passaggio che, da un confine netto di un campo, ha ravvicinato lo sguardo nella direzione del caos del vento e del disgelarsi della materia.Pur essendo la luce costante guida nel mutamento della visione da una scenografia pregna di linearismo a un’apparizione, in cui l’ombra getta una confluenza tra i volumi, la continuità di un respiro sistematico - che determina la scelta del colore - si pone come nota di comunione del più vasto operato. La matrice di una metamorfosi, così spontanea e altrettanto articolata, ha comportato un nuovo modo di esaminare i fenomeni naturali nel lavoro, in undeterminato affioramento transitorio che è invalso nel tuo scorrere temporale.
SK. Lavoro con mezzi che possono sembrare antitetici; uno di questi è il colore che utilizzo in modo molto razionale, come farebbe un compositore di musica, con intervalli matematici tra i diversi colori, molto precisi per l’impiego di palette di colori che ho realizzato io stessa negli ultimi venti anni; e quindi questo elemento - che normalmente è il meno razionale (colori contro disegno) nella pittura - è in realtà il più razionale nel mio lavoro. Uso anche l’opposto della formalità del “disegno”, in quanto il segno gestuale è completamente privo del pensiero a priori e non ha logica, essendo più simile a una danza, e implicando velocità e una certa incoscienza. Ragion per cui la tua osservazione sul vento è estremamente rilevante perché bisogna entrare in quel determinato stato mentale prima che l’opera prenda vita.
LC. Ciò di cui noi prendiamo atto, come forma sensibile nel quotidiano, non corrisponde mai al suo interno, alle sue arterie e al suo nucleo. Le tue opere parlano di quell’anima, rendendola osservabile a occhio nudo. Lo schermo lineare di una televisione è contenitore di una serie di ingranaggi interni, l’equilibrio e la simmetria del design di un mobile sono copertura dell’affastellamento dei suoi ripiani, le mura di un’abitazione proteggono l’umano disordine, così come il corpo di un organismo, la fragilità e l’entropia delle sue membra.
SK. Penso che tu abbia ragione ed è molto interessante la tua riflessione sugli ingranaggi interni, la televisione come contenitore, perché la tela (supporto) in questo caso è il contenitore. Dunque, ho scelto di avvalermi di un supporto convenzionale come la tela e non di vecchi stracci, parti di albero o qualcosa del genere, come è abbastanza comune in questi tempi. Sono abbastanza soddisfatta della regolarità, della linearità di una tela o di un pezzo di carta o di un cartone. Penso molto al formato prima di iniziare a lavorare, soprattutto perché il lavoro non è di quel tipo, e ho bisogno di avere qualcosa che lo contenga, solo che lo contenga…
LC. Siamo a diretto confronto con la natura più vera del sottosuolo epiteliale delle entità naturali, del loro muoversi e agitarsi. L’istintività della Madre del tutto è suo respiro primordiale che sporge come germogliazione, nell’espressività dei toni cromatici, con carnale efficacia che, con gesto involontario e unitamente computato, morde e imprime la tela.
SK. Questo genera davvero partecipazione. Il rapporto con la natura è qualcosa di molto significativo per me. Vivo in questi luoghi selvaggi ormai da venti anni, ma vengo da Londra e, quindi, ciò rappresenta un grande contrasto per me. Questo luogo, infatti, anche se è stato molto curato e amato, per secoli, dai monaci olivetani e dai loro contadini, è stato trascurato da quando se ne sono andati circa settant’anni fa, e in tempi recenti è stato completamente abbandonato, perché per i macchinari è troppo difficile da lavorare. La foresta sta prendendo il sopravvento nel posto in cui risiedo, e non è del tutto benigna. È piuttosto buia e selvaggia ma trovo, nel tipo di caos che vi riconosco, qualcosa di vero. Ho fatto molte passeggiate notturne, durante il lockdown, e hanno sicuramente influenzato il timbro del lavoro e la qualità della luce in questi tempi difficili.
 LC. La fanciullezza di un gioco libero matura nel ritrovamento di ciò che siamo nei nuovi momenti di sciolta evasione in età adulta. Nel frangente di un riconoscimento del sé, si levano cristalline lacrime indispensabili nel deposito del nostro nuovo essere che, spesso, si oppone al primo con violenza, altre volte lo abbraccia, altre ancora lo accarezza nelle spigolature che smussano un geocentrismo razionale, in un emancipato e sorgente procedere, adulterio di una connotazione standardizzata. 
SK. La tua ultima rilevazione è davvero bellissima. Penso che ci sia molta perdita in questi lavori recenti ma anche un po’ di luce, un sentimento di energia umana, una danza, una promessa che deve essere anch’essa visibile.
LC. Mi pongo in chiusura delle nostre note dialogiche per comunicare l’incanto di una ricerca, ove la spinta gestuale aderisce, come zampillo, alla sostanza di un fluire sensoriale e antropologicamente collocato, di volta in volta, nel tempo in cui si dischiude. È tanto sbalzo ipersensibile nella rivelazione di un’impulsiva emersione immaginativa, quanto lucido risveglio coloristico disteso in un confine che argina lo specchio della natura nella sua rappresentazione dualistica di pieno e di vuoto nello spazio. L’attività volta al misurarsi con attenzione è processo spontaneo e utile per il respiro fisico e interiore. In sua mancanza non può situarsi né la vita, né la poesia nei paesaggi osservati e rievocati, né tantomeno il loro collaterale e reciproco evolversi. Le campiture di colore che si allargano in una luminescenza, indagando un’apertura linfatica nei toni foschi, sono volumi ma anche accessi. Non chiamano uno spessore imperturbabile ma la possibilità di essere attraversate, permettendo al circostante uno scambio continuativo e un generoso avvicinamento psichico. La rigorosa mappatura del colore elabora un ordine emotivo distensivo che si dipana, al di là dei supporti, per pervadere l’ambiente in cui si immettono, donando quel cadenzamento intrinseco, di cui sono cospicuamente muniti. Un vivido tesoro da custodire.
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